Lettere a una pedagoga - Gina Basso

Cerca
Vai ai contenuti

Menu principale:

Lettere a una pedagoga

Il personaggio
 


Carissima Gina (e dico subito, per il pubblico dei lettori, che si tratta di Gina Basso, autrice di libri a carattere psicopedagogico), non puoi immaginare il piacere che mi ha fatto ricevere il tuo ultimo romanzo "Cento pagine di verità" (Fabbri editore, 1991). Leggerlo è stato come ascoltarti, perché tu credi - ahimè, ci credi davvero - in quello che scrivi. Il tuo ingenuo inabissarti nella melma di un tema mortifero come quello della 'ndrangheta, sicura che qualcuno possa essere aiutato e confortato dalle tue parole, non cessa di stupirmi.
Sei davvero ammirevole, cara Gina, mentre muovi i fili di storie come questa di Linuccia e Nino, moderni Romeo e Giulietta che si ribellano a cosche nemiche per costruirsi un avvenire di libertà e di speranza, e ad ogni pagina reciti la tua fede nei rimedi, nelle donne calabresi, nel compito della scuola, nella pulizia morale dei giovani e via dicendo. Lupara e tritolo non sono, secondo te, mostri invincibili: un'educazione adeguata impartita ai giovani potrà, a breve scadenza, eliminarne l'uso, perché le coscienze si schiuderanno simili a palpebre (o già si stanno schiudendo) sui valori di una vita sociale non più soggetta alla violenza.
Le pagine si susseguono colme di fiducia, la vera spola che tesse le tue trame. E del resto tu sei calabrese, ancorchè una calabrese di lidi lontani: vivi infatti a Roma, dopo aver studiato a Bologna e girato, per lavoro, l'Italia con il tuo microfono di giornalista. Come potresti tradire la tua terra madre, negandole quel credito che ad ogni genitore è dovuto? Anzi, sei talmente larga d'animo che nei tuoi libri precedenti (ricordo "Il coraggio di parlare", portato sui teleschermi da Leandro Castellani), ti sei occupata anche di mafia e di extracomunitari - condannando nel primo caso l'omertà, e nel secondo l'indifferenza di una metropoli del Nord al problema dei terzomondisti. Tutte "bazzecole" impastoiate col sangue nel nostro quotidiano. Tu vi partecipi con quella commozione che io ho faticosamente appreso ad evitare, e non è per pura amicizia che ti ripeto la mia stima.
Il guaio sta nel fatto che, mentre tu ti affanni nel labirinto dirupato della vergogna nazionale portando appesa alle bianche dita la lampada di Aladino (o la lanterna di Socrate, cercatore d'anime), un certo Pietro Vernengo, gentiluomo condannato a due ergastoli per affari di droga, estorsioni ed uccisioni, se n'è andato tranquillamente dall'ospedale di Palermo dov'era  ricoverato. E un boss mafioso che torna in circolazione, un boss di quel calibro, basta a sconquassare qualsiasi ricucitura morale avvenuta nel frattempo ad opera del paziente mondo della cultura - ammesso e non concesso che ciò sia possibile. Un boss mafioso (o 'ndranghetoso) che torna in circolazione è paragonabile allo scoppio di Cher nobil: sparge veleni nell'aria a non prevedibile scadenza.
Oltre tutto, non è il primo caso. Ritengo ozioso rammentarti i nomi dei vari fuggiaschi, i capipopolo che il compiacente Stato italiano si è lasciato scappare di mano nell'allegro gioco di guardie e ladri che ci contraddistingue, il numero degli omicidi vertiginosamente aumentato nel Primo semestre del '91, i piccoli spacciatori di Napoli la cui denominazione di "muschilli" è ormai assunta a termine da dizionario, e le donne che fanno a gara per divenire la "femmina" del mammasantissima di turno. Non voglio, con questo, attenuare la tua tenacia: le orrende piaghe del Sud le conosci meglio di me, e se ritieni di continuare nella tua crociata contro il male di quei luoghi, non posso che ripetere con il poeta: "Ma cos'è la verità di fronte a questa certezza / che sta al timone sul mare dell'incertezza? ".
Quando vengo al Sud, in treno, sempre mi prende una strana angoscia: quella di transitare su dei punti nei cui piloni è stato forse cementato qualche vivo. Il Sud della camorra, della 'ndrangheta e della mafia che noi nordisti incautamente confondiamo, ma che ha in tutte le sue sfumature i medesimi connotati derivati dalla storia. Leggiamo nei diari di Rosolino Pilo, nel '48, come fossero pochissimi quelli che laggiù rispettavano un appuntamento, che lavoravano, che - avendo promesso una cosa - non ne facessero poi un'altra. Lavorare! Cedo la parola, per non suscitare sospetti di campanilismo, con idee personali, a Salvatore Quasimodo il quale, come ben si sa, era di quelle parti: "Inutile chiedere alla Sicilia di essere un'altra se prima non si è spezzata, con il vento di nuove ideologie, la spina dorsale della sua gente".
Sì, il nodo d'ogni questione è lì, nell'indolenza; e non so quale medicina potrà scardinare mafia, 'ndrangheta, camorra, se prima non si metterà la parola fine ad assistenzialismi, beneficenze, pensioni inopportune, privilegi fiscali, traffici occulti di ogni tipo, per una dura, ferma, salutare politica del lavoro. Non in nome delle ideologie, ormai morte, ma della rimanente Italia che tira la carretta e assiste disperata all'inquinamento del proprio tessuto sociale da parte dei delinquenti che migrano da quelle terre.
Mia cara Gina, tu lo sai come la mia formazione mi porti alla mente più la Sicilia di Teocrito che quella di Vernengo, o la Napoli di Benedetto Croce anzichè la ributtante città delle varie "famiglie" criminali. E tu sai anche quanto ti consideri migliore di me nella tua pietà pedagogica. Vincenzino, Tourè, Linuccia, Nino, sono personaggi di speranza, costruiti con quell'intelligenza del cuore oggi più rara di un diamante. Voglio sperare che le loro storie, contro la mia logica negatrice, servano a qualcuno. Se anche un solo adolescente, grazie alle tue parole, imparerà a difendersi dalla violenza, non avrai fallito il tuo intento. Se una sola fronte si alzerà dal fango, potrai dirti soddisfatta. Non è di tutti gli scrittori, infine.

Ti abbraccia con affetto la tua
Curzia Ferrari


 
 
Nuova pagina 1

 
 
 
Torna ai contenuti | Torna al menu